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Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia (Mt 5, 6) testo completo

La folla che ascoltava Gesù nel discorso della Montagna doveva essere costituita per lo più da gente bisognosa e semplice. È facile immaginare che ci fossero poveri, malati, giovani alla ricerca di senso, persone sbandate, forse anche qualche curioso, spinto dal desiderio di capire che cosa potesse dare speranza ad Israele in un contesto socio-politico complesso e difficile. L’evangelista Luca ci fa un ritratto molto significativo della situazione: “C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,17-19). Erano tutte persone spinte da un bisogno di “guarigione” fisica o spirituale; venivano da tante parti della nazione, attratti sia dalla “forza” che usciva da Gesù che dalla sua parola: infatti “erano venuti per ascoltarlo”, nella convinzione che la sua parola fosse efficace ed in grado di aprire il cuore alla speranza, di concedere un nuovo inizio, di ridare vigore.

A tutti costoro Gesù dice: “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio” (Lc 6,20): la beatitudine, che è l’aspirazione massima dell’uomo, consiste dunque nell’appartenenza al Regno di Dio, ossia nell’apertura cosciente e volontaria alla signorìa di Gesù sulla propria vita. “Beati”, ossia pienamente felici, sono coloro i quali capiscono che l’unica ricchezza è Dio; di conseguenza fanno il “vuoto di sé” per fare il massimo spazio possibile a Dio, l’unico capace di saziare le aspirazioni più grandi dell’uomo. Costoro sono beati non perché sono poveri o afflitti, ma perché sono cittadini del Regno di Dio, ossia assumono uno stile di vita che imita il comportamento stesso di Dio: mitezza, pace, purezza di cuore, misericordia, giustizia…


1 – Il fondamento della giustizia

In particolare la giustizia appare come la virtù principale, che in qualche modo racchiude tutte le altre e le armonizza in un insieme organico, capace di regolare in maniera saggia le diverse relazioni interpersonali: sia quelle fra le persone che quelle degli uomini con Dio. La giustizia perciò è il fondamento della vita comunitaria, la virtù che promuove l’ordine positivo, costruttivo, benefico. Essa tiene conto del fatto che ogni uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio, e quindi è un essere di relazione, strutturalmente aperto al dialogo e alla socialità: come Dio è in se stesso relazione fra le Tre Persone nel dialogo d’amore trinitario, così l’uomo è relazione d’amore, che vive la giustizia come riconoscimento dei diritti di ognuno, ma anche come autocoscienza dei propri diritti e della propria dignità. Questo ci porta subito a dire che “ogni uomo e ogni donna hanno, fin dal primo istante della loro esistenza, dei diritti nativi inconculcabili, perché ciascuno – di qualunque razza, colore, educazione, censo, età – è stato creato da Dio…Il fondamento della giustizia umana è la creazione divina”.

Risulta perciò difficile, anzi impossibile, definire la giustizia prescindendo da Dio, come sovente si è tentato di fare nel corso della storia. Dove si è negato Dio, infatti, si è finito quasi sempre col negare anche la dignità dell’uomo e si è ridotta la giustizia ad un concetto legalistico e contrattuale, privo di fondamento assiologico. Se non si fa riferimento a Dio, infatti, non si riesce a definire con chiarezza i diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo, perché si ritiene che essi nascano unicamente da accordi fra gli uomini, fatti su una base convenzionale e contrattualistica, volta semplicemente a “limitare i danni” di una convivenza sociale segnata fondamentalmente dall’egoismo e dalla violenza.

C’è oggi un ritorno a posizioni filosofiche espresse nell’età moderna, che essenzialmente negano l’esistenza di verità assolute, oggettive ed universali per fare posto unicamente a verità “fattuali”, che scaturiscono cioè dall’osservazione diretta e “scientifica” dei fatti e non richiedono altro fondamento, se non quello della loro realtà immanente. Nel pensiero post-moderno risulta vero solo ciò che è misurabile e dimostrabile; le altre asserzioni non possono essere assunte come base della convivenza umana, perché si ritiene che non siano universali. “Si è creata così una scissione tra il pensiero positivista scientifico e il pensiero metafisico”. La metafisica, anzi, è entrata fortemente in crisi, mentre il pensiero scientifico ha rischiato e rischia di andare avanti senza un adeguato supporto etico. Su queste basi si è impostato e consumato anche il dramma dell’umanesimo ateo, che ha gettato grandi “sospetti” su Dio, presentandolo come il grande nemico e rivale dell’uomo, dal quale bisogna liberarsi per ottenere la reale liberazione dell’uomo.

La conseguenza, per quanto riguarda il tema della giustizia, è che si genera sostanzialmente una separazione fra diritto e verità, che rende difficile cogliere la consistenza dei diritti fondamentali dell’uomo. Un conto infatti è ritenere che questi diritti precedano la volontà del legislatore umano, perché provengono dall’essenza della persona creata da Dio, un altro conto è pensare che essi risiedano unicamente su un riconoscimento “positivo” degli uomini, che, come tale, è sempre passibile di mutazioni e di fluttuazioni. È questo il terreno dello scontro classico tra giusnaturalismo e giuspositivismo, che ancora oggi caratterizza il dibattito sui fondamenti della giustizia e sul riconoscimento dei diritti dell’uomo. Noi riteniamo che tali diritti costituiscano una realtà ontologica anteriore alla volontà dei legislatori e pre-esistente alla legge scritta. Il legislatore non “crea” i diritti umani fondamentali, ma li “riconosce” e li tutela con adeguati strumenti giuridici. Questi diritti infatti non sono un accessorio, ma appartengono alla struttura ontologica della persona e provengono dalla volontà creatrice di Dio. Non riconoscere questi diritti, che per loro natura sono universali, inviolabili ed inalienabili, significa in ultima analisi offendere Dio stesso, che ne è il fondamento e la fonte originaria.

Non è semplicistico affermare che la crisi della giustizia contemporanea è soprattutto crisi di fondamento; quel fondamento che ci viene indicato nella Sacra Scrittura e che si identifica, in ultima analisi, con Dio stesso. Bisogna ritornare perciò a Dio per riscoprire le ragioni più profonde della nostra convivenza sociale ed i tratti fondamentali della giustizia. Si capisce, in quest’ottica, che la giustizia non è qualcosa di legalistico o meramente pragmatico, ma la virtù che indica le coordinate del nostro essere personale, segnato nel suo DNA dall’immagine e somiglianza col Dio-comunione trinitaria, col Dio giusto e santo, il quale pone la nostra beatitudine nell’essere “affamati” e “assetati” di Lui. Avere fame e sete della giustizia equivale perciò a desiderare Dio, ad accogliere la sua Parola, a riconoscere in noi stessi e negli altri i tratti della somiglianza con Lui. Senza un tale fondamento è facile che l’espressione “diritti fondamentali dell’uomo” si riduca ad un mero flatus vocis…

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